Storia della Pieve

Il termine Pieve viene dal latino Plebem che si deve intendere nel significato di comunità, popolazione unita nella fede di Cristo.

Le pievi furono le prime forme organizzative della struttura ecclesiastica cristiana nel territorio diocesano rurale. Il termine “Pieve” indicò dapprima la comunità di fedeli, quindi passò a designare la circoscrizione territoriale (Plebatus) nel cui ambito risiedeva la stessa popolazione e solo in un secondo tempo coincise con l’edificio di culto in cui avvenivano le funzioni sacramentali, prime fra tutte il battesimo.

La Pieve era la chiesa battesimale, cioè per battezzare i propri figli bisognava venire solo in questa chiesa.

Ebbene la Pieve di Budrio di Bologna ha avuto questo diritto esclusivo per mille anni: dal 401 al 1406.

Nel 1406 avvenne un episodio importante sia per la Pieve che per la comunità budriese: la concessione del fonte battesimale alla chiesa di San Lorenzo di Budrio. Il curato di San Lorenzo assieme ai massari del Comune chiedono il diritto di poter battezzare nella chiesa principale del castello, che di lì a poco diventerà parrocchiale sotto la guida dei Servi di Maria (1406).

L’essere la chiesa battesimale costituiva un importantissimo privilegio ecclesiastico.

Le prime menzioni della Pieve di Budrio di Bologna si trovano su due documenti cartacei:

il primo risale al 884, marzo 16, il Vescovo Mainberto investì il Vescovo di Parma Wibodo del Monastero di S. Prospero di Panigale: fra i testimoni Urso Presbiter de Bueta, Leo Presbiter de Treario… Urso Presbiter de Lepidiano.

A questa data pare dunque che la chiesa di Lepidiano (presso Budrio) non fosse ancora pievana, ma il fatto che il suo rettore sia chiamato a testimoniare ad un importante atto di cessione fa pensare che essa fosse in una posizione importante nel quadro delle strutture ecclesiastiche diocesane (CDCB, n.22, pp.80-81 già edito in U. Benassi, codice diplomatico parmense, n. XVI, pp. 48-50).

Il secondo nel 983, dicembre 3, fu rogato in vico Lepidiano infra plebe sancti Gesrvasii, territorio Bononiensi, un’atto di concessione livellaria con il quale i fratelli Pietro e Lamberti figli qd. Iohannes et nepotes qd. Petroni duci atque marchioni concessero a Pietro e Maria coniugi una terra arativa (le carte bolognesi del sec. X, n.XIV, pp.61-62). (Le due attestazioni sono prese dal libro Le pievi medioevali bolognesi sec.VIII-XV, a cura di L. Paolini – Bononia University Press).

“Comunque è certo che, durante il periodo bizantino, la Pieve dei Ss. Gervasio e Protasio, fu tenuta aperta al culto, poiché ne abbiamo un’epigrafe un poco oscura nelle ultime parole, ma chiarissima nelle iniziali. Si tratta della notissima formula De elemosinis altaris Dei – usata da tutti nell’Esarcato, dal Panaro a Ravenna (La pietra ha DEAD’ ECLA, cioè d (e) e (lemosinis) al (taris) D (ei eccl (esia). F. Patetta: Note sulle cose bizantine, p. 32). Ha fatto male un interprete che, dimenticando i documenti e lasciando in libertà la fantasia, scrisse: De elemosinis altaris Protasii: il nome del martire non vi figura affatto (Diehl: Studi sull’ Esarcato, p. 58, ed. 1888).

Né altro sappiamo della chiesa primitiva se non che aveva sepolture private, nelle quali furono deposte salme di pie persone, forse benefattrici della chiesa, la quale, fino dai tempi più remoti, venne costituendosi un patrimonio notevole, che i moderni distrussero senza riflettere – erano anche capaci di riflessione? – sui danni materiali e morali arrecati. Alcuni hanno dubitato di un’altra prova d’onore della Pieve di Budrio, perché non riescono ad averne il documento autentico relativo.

Io alludo all’esistenza della Collegiata dei Canonici della Pieve di Budrio, che posso documentare dal secolo XIV al XVII.

Per non riportare tutti gli estimi ecclesiastici dal 1366 al 1642 credo opportuno di scegliere quello del 1392, che mi pare più completo (Archivio di Stato di Bologna: Extimum totius cleri bononiensis an MCCCLXXXXII, nn. 2283-2300) e che poi commenterò col descriverne le chiese principali dipendenti.

Ecco il documento prezioso: Plebs Ss. Gervasii et Protasii de Butrio habet unum Archjpresbiterum et quatuor Canonicos: Petrus de Grifonibus est archipresbjter, Petrus de Sanctis, Iohannes de Aceto, Nicolaus de Montecalvo, Franciscus de Bonaceptis sunt Canonici.

Ora esaminiamo il documento delle Chiese dipendenti dalla Pieve di Budrio.

Ecclesiae de Plebatu Butrii

Ecclesia Sancti Laurentii de Butrio – Ecclesia Sancti Apollinaris de Butrio – Ecclesia Sancti Laurentii de Prunario – Ecclesia santi Clerici de Butrio – Ecclesia Sancti Marci de Vigursio – Ecclesia Sancti Blasii de Cento Butrii – Ecclesia Sanctae Mariae de Cento Butrii – Ecclesia Sanctae Mariae de Bagnarola – Ecclesia Sancti Cristophori de Castenasio – Ecclesia Sancti Iohannis de Flabeto – Ecclesia Sancti Iacobi de Galixano – Ecclesia Sancti Petri de Flexo – Ecclesia Sancti Iacobi de Ronchis de Bagnarola – Ecclesia Sancti Blasii de Bagnarola – Ecclesia Sancti Michaelis de Centonaria – Ecclesia Sanctae Mariae de Tumbis Confortorum – Ecclesia Sancti Nicolai de Migarano – Hospitale de Vulpino et Hospitale de Castenasio.

Questo è l’elenco del vastissimo plebanato primitivo, che venne poi diminuito dalla fondazione di quelli di Marano e di Vedrana, che erano già costituiti fino dal secolo XII (Archivio di Stato di Bologna: S. Giovanni in Monte, f. 1/1341, nn. 25,42,43 – F. 2/1342 n. 6) e che solo nel XV incominciarono a strappare le chiese alla primitiva Matrice budriese. Benché avesse strappi, più o meno necessari, tuttavia non riuscirono a toglierle la famosa croce dorata eretta, nell’828, nell’oratorio di S. Giuliana e che porta il nome dell’Arciprete Siliano, il quale la fece erigere in seguito al dono del Can. Pietro. Chi poi volesse notizie e documenti del secolo X, sappia che, allora, la Pieve di Budrio subì il passaggio, il saccheggio, l’abbruciamento degli Ungheri: il solo annunzio del fattaccio dice a sufficienza dello stato di cose.

Gli storici budriesi, raccogliendo una tradizione sprovvista di documenti, attribuiscono la ricostruzione della Pieve di Budrio, dopo l’irruzione degli Ungheri, al Vescovo di Bologna Vittore II (1105-1129). Anzi, ricostruita detta Pieve dei Ss. Gervasio e Protasio, le avrebbe dato il titolo plebanale. Che Vittore II possa avere compiuta tale ricostruzione, benché non abbia il sussidio delle prove, può essere probabile. Ma la tradizione, senza dubbio, deve essere stata alterata in qualche particolare, relativo alla concessione fatta da quel vescovo bolognese del primo quarto del secolo XII, perché dell’esistenza della Pieve di Budrio, come ho già accennato, conosco documenti, i quali precedono Vittore II, rimasti ignoti agli scrittori di cose budriesi. Per tutto il secolo XI sino al primo decennio del XII (1016-1114), esistono prove contro il fatto di Vittore II. (Archivio di Stato di Bologna: S. Stefano B. 2-938 – 1016/1068 – S. Giovanni in Monte, B. 1-1341- 1077/1114).

Che abbiano confuso il titolo di Pieve con quello di Collegiata? Non può questa erigersi che dal Sommo Pontefice. Non cosi, però, si deve dire se, dopo l’erezione canonica, per un avvenimento distruttivo, quale fu l’incendio della Pieve da parte dei barbari Ungari, la collegiata fosse cessata soltanto in actu. Allora sarebbe rimasto nella facoltà del Vescovo ripristinarla senza un nuovo indulto apostolico: ritengo che nella storia di Pieve di Budrio si sia confuso questo titolo coll’altro della Collegiata, che, quantunque sia ricordata in un documento ufficiale del 1366, (Sigonius: De Regno Italico, p. 120) tuttavia, essendo stato composto con carte e con notizie precedenti, ora perdute, si può ritenere più antica di almeno tre secoli. (Extimum D. Bon. MCCCLXVI).

Un’altra confusione si è fatta con Gerardo II (1155-65) Vescovo di Bologna (Si consultino gli scrittori, che si sono occupati delle collegiate) che, nel 1160, ricevette da Teocle L’Immagine della B. V. di S. Luca (Archivio di Stato di Bologna: S. Giovanni in Monte, B. 1-1341- N.27), col Canonico Gerardo di Ravenna. Il primo era già morto da un ventennio: fu il secondo, cioè il ravennate, che, nel 1185, fece visita alla Pieve di Budrio, e, dopo di essa, compì un atto sotto il portico della chiesa parrocchiale di S. Lorenzo del castello, alla presenza del plebano, che, era l’arciprete Balduino (V. Santi: Giurisdizione ecclesiastica bolognese, Atti della R.D.S.P.M. Serie IV, voi V.). Si dirà che sono piccole quisquiglie ma, nel loro complesso, essendo documentate, purgano la storia delle chiese di molti errori e di parecchie inesattezze. Né altre memorie importanti abbiamo sulla Pieve di Budrio, fino al secolo XIV, all’infuori di quelle dell’elenco del 1306, relativo alle Pievi, e compilato dal priore di S. Siro di Bologna (Extimum Eccl. MCCCLXVI). Queste memorie riguardano la vastità della giurisdizione plebanale, che comprendeva una ventina di chiese”. (La Pieve di Budrio e le sue Chiese: Estratto dal Bollettino della Diocesi di Bologna A. XVIII-XIX a cura di Mons. R. Della Chiesa)

Ciò significa che tutte le chiese, gli oratori e le popolazioni residenti in questi territori dipendevano dalla Pieve dei Ss. Gervasio e Protasio e non solo per la somministrazione del battesimo. La Pieve infatti costituiva il luogo di raduno per le comuni manifestazioni religiose, sacramentali e liturgiche, ma era anche la sede di coordinamento e riferimento capillare per l’organizzazione pubblica, fiscale, giudiziaria e militare.

Le pertinenze territoriali della Pieve di Budrio

Il toponimo Lepidiano segnalato nelle testimonianze sopra citate (e le sue varianti Lepediano, Lempediano, etc…) di chiara tradizione romana, è citato anche nelle carte successive dei secoli XI e XII come “denominativo” ora di fundus ora di vicus, a volte anche di locus, ed indica l’insediamen­to rurale sorto attorno all’edificio plebano.

Per poter trarre qualche preziosa, ancorché scarna, informazione dalle righe di un contratto agrario, occorre fare una precisazione sulla terminolo­gia usata che getti un po’ di luce sul quadro ambientale e sul paesaggio agrario di quei secoli.

Il fundus di epoca medievale non indica più come in età romana la pro­prietà del singolo, né l’unità agraria, cioè il podere, ma designa semplice­mente le aree bonificate o diboscate e rese arabili e serve quindi innanzitutto per localizzare le terre coltivate, o pron­te per la coltivazione, dall’incolto anco­ra dominante.

Con il termine vicus si indica l’in­sediamento rurale non fortificato la cui formazione è strettamente legata, quasi conseguente, al processo di riduzione dell’incolto e di organizzazione agraria dell’Alto Medioevo; spinti fuori dal castrum (insediamento dotato di mura) per “dissodare” e “lavorare” le nuove terre, i coloni-pionieri vi costruivano dimore rurali (capanne associate a ricoveri per animali) che consentissero loro una più agevole per­manenza.

Locus è semplicemente un termi­ne generico usato molto spesso dai notai come sinonimo dei precedenti.

Ciò premesso, va detto che nei contratti altomedievali detti termini vengono spesso usati indifferentemente con un valore unicamente ubicatori e indicano il grande sforzo colonizzatore e disossatore di quei secoli in cui il quadro ambientale appare ancora for­temente segnato da selve, paludi e vegetazione palustre, generate dalle numerose esondazioni fluviali dei corsi d’acqua che, privi o quasi di argini, spagliavano molto prima di sfociare.

Storia del fondo lepidiano su cui sorse la pieve

Sorto in età romana come “fondo di proprietà di Lepidus“, Lepidianus venne probabilmente abbandonato all’incolto nei primi secoli del Medioevo a causa delle invasioni barbariche che costrinsero la popolazione all’interno degli insediamenti fortificati.

Nel corso dell’VIII-IX seco­lo, agli albori cioè del movimen­to plebano nelle nostre terre, si sarebbe costituita, secondo la Rinaldi, anche la nostra Pieve in un paesaggio quasi selvaggio interrotto soltanto qua e là da minuscoli e precari insediamenti umani, abitati da coloni fuoriu­sciti dal castello alla conquista di nuovi spazi agrari.

Richiamata dalla fondazione della Chiesa plebana, una folla sempre più numerosa si trasferì sulle terre dell’antico fundus Lepidianus, su cui era sorto l’edificio religioso, terre prossime al recinto castrense di Budrio, per dissodarle e ridurle a coltura.

I confini di questo territorio erano compresi fra il fiume Idice a ovest e la “croce della pieve” a sud; l’individuazione geografica degli altri due confini appare più oscura: a nord S. Archangelus e a est Gavascito – corruzione di Cavaxito, da ‘cavare’, ‘dissodare’. Il fundus Lepidianus, arric­chitosi di nuove strutture edilizie (case e fabbricati ad uso agricolo) e raggiunto un considerevole accentramento demografico, assunse così l’appellativo di vicus. La lenta evoluzione del fundus a villaggio si può collocare crono­logicamente attorno agli ultimi decenni del X secolo.

La pieve come centro di vita rurale

Nella maggior parte dei cen­tri rurali, dove l’ordinamento comitale stenta a diffondersi nelle articolazioni territoriali periferiche e i “castra” (accampamento militare) non hanno ancora assunto funzioni civili e amministrative, è la Pieve che si pone come centro esclusivo ed assorbente della vita comunitaria e come capillare punto di riferi­mento della distrettuazione minore, non solo ecclesiastica, ma anche pubblica.

È in questo contesto, in cui si assiste ad una maggior stabilità dell’ordinamento diocesano, che i centri plebani, appoggiati e promossi nel loro sviluppo dai vescovi come strumenti di con­trollo territoriale ed ecclesiastico, diventano circoscrizioni presso­ché autosufficienti molto prima dei comuni rurali.

Nel capitolo della chiesa bat­tesimale si riunivano le assem­blee che dovevano assumere decisioni solenni di carattere politico-amministrativo; il sagra­to della chiesa diventava punto d’incontro per transazioni e negozi giuridici, come indica la presenza in molte pievi di una pertica, l’unità di misura lineare che, apposta sotto il portico della chiesa, garantiva l’autenticità dei contratti agrari, contratti che spesso venivano rogati in loco in quanto la Pieve godeva in molti casi di uno jus rogarteli esercitato da un suo notaio; ancora il sagra­to era il luogo di mercato, di soli­to con cadenze settimanali o in occasione della festività del santo patrono.